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Salvanel

Paradis

I dis che ghe sia

el paradis.

Endò che 'l  sia non se sa

forse l'è la voia che la 'l fa...

Voia de zoventù

per tut la vita

voia de non morir

mai pù.

Nella geografia interiore dove il tempo, convenzione della mente, diventa condizione dell’esistere, la parola poetica definisce lo “spazio sacro”, entro il quale far giocare la valenza dell’immortale, l’età dell’oro degli antichi, trasfigurazione mitologica e letteraria della memoria infantile (el popo da Trent).

Ma “fuori”, nella sequenza dei fenomeni ai quali soggiace la corporeità degli esseri, il tempo va oltre i corpi (el temp el ne trapassa), seminando di cadaveri il suo tracciato, trapassando con il suo ferro di morte le fragili esistenze delle creature.

Per esorcizzare il rischio mortale, il poeta forgia parole come armi di difesa (parole de fer), all’ombra dell’antenato protettore (el nono Simon), fabbro e sacerdote, in contatto con gli elementi primigeni (aqua, foc).

Situazione “religiosa” che rende possibile il prodigio: dalla materia arida e mortale del mondo, ecco sprigionarsi la luce implausibile, inattesa (casca vergot de lusent), come la presenza di uno spirito misterioso (salvanel) che rompe il buio (strof), luogo di paure, della foresta terrena.

 

L’autore

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